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Scattone, il tribunale ha detto: 5 anni e 4 mesi. Il popolo ha detto: fine pena mai

scattoneDa ieri possiamo dormire sonni meno tranquilli. In Italia la condanna non viene decisa da un tribunale, con tre gradi di giudizio, la valutazione delle prove, un’accusa e una difesa. Viene decisa dal popolo che dello Stato di diritto se ne frega. E così che Giovanni Scattone, dopo le polemiche per l’assegnazione di una cattedra, ha deciso di lasciare. Ha rinunciato al posto e – parole del suo avvocato -si trova ora in mezzo a una strada: “Se la coscienza – ha scritto all’Ansa – mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico”.

Scattone è stato condannato a 5 anni e 4 mesi per l’omicidio colposo (aggravato) di Marta Russo, uccisa da un colpo di pistola nei giardini della Sapienza. Era il 1997. Con lui è stato condannato per favoreggiamento Salvatore Ferraro. Scattone si è sempre dichiarato innocente. Ma ha comunque pagato i suoi conti con la giustizia e ha poi cercato di rifarsi una vita. Come è normale. Come è giusto che sia. Come, soprattutto, recita la Costituzione all’articolo 27, quando indica nella pena non uno strumento di vendetta ma di rieducazione.Scattone c’ha creduto, ha vinto il concorso per avere una cattedra e grazie alle nuove assunzioni ha ottenuto il posto. Ma non aveva fatto i conti con qualcosa che la Costituzione non dice, che la civiltà dovrebbe ostacolare. Non ha fatto i conti con la vendetta, l’idea che se hai sbagliato non potrai mai e poi mai ritornare nel consesso umano e civile.

Scattone nella lettera in cui rinuncia alla cattedra ha scritto parole durissime. Ha detto che gli si vuole impedire una vita da cittadino normale e che quello che è accaduto non è degno di un Paese civile. La sua decisione di lasciare è di fatto una sconfitta per tutti noi, la sconfitta di chi davvero pensa che la società, la civiltà che abbiamo costruito, siano abbastanza forti da permettere a una persona, che ha sbagliato, di pagare il suo debito e di riprendere a vivere. Qui sta l’ipocrisia. Perché in realtà questa idea non vale più. Si applicano le norme, ma poi vince ormai la cultura della vendetta, dell’occhio per occhio, dente per dente. Se una persona ha sbagliato, è bollata a vita, è condannata a vita.

Il processo che ha condannato Scattone e Ferraro è stato uno dei primi basati principalmente su indizi e non su prove. E’ stato cioè uno dei primi grandi processi mediatici, dove ha contato più la pressione popolare che lo Stato di diritto. Da qui quella sentenza a metà, quei 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo come se i giudici avessero, nel dubbio, deciso di infliggere il minimo indispensabile. Nel dubbio, si sa, si dovrebbe assolvere. Ma erano troppe le pressioni, troppa l’attenzione di giornali e tv per non dare loro in pasto un colpevole.

Comunque sia andata, la Cassazione nel 1997 ha deciso per una condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. La condanna è stata scontata. Il popolo urlante, però, dice che non basta. L’obiezione più diffusa è che così si manca di rispetto ai genitori di Marta Russo. Loro hanno perso una figlia, mentre Scattone può insegnare. Confutare questo discorso è centrale. Dirimente. Perché se ci affidiamo a questo ragionamento davvero possiamo chiudere i tribunali, stracciare il codice penale, dare fuoco alla Costituzione. La terzietà del giudice rispetto al dolore dei parenti della vittima o della vittima stessa è fondamentale per non ricadere nella vendetta, in una società che non ha fiducia nel cambiamento delle persone.

Non dando una seconda possibilità a Scattone è come se dicessimo che l’essere umano non cambia, che la rieducazione è una utopia, che l’unico modo che abbiamo per garantire il rispetto della vita è quello di vendicarci contro chi sbaglia.

Non dando una seconda possibilità a Scattone, non stiamo dando una possibilità a noi, alla società di cui facciamo parte per uscire dal clima di odio e di livore che si stanno affermando. Ecco perché sarebbe bello che Scattone, come auspicato anche dal suo avvocato , Giancarlo Viglione, cambiasse idea e non si facesse intimorire da chi oggi lo perseguita.

(Angela Azzaro, Il Garantista, 11 settembre 2015)

2 Commenti

  1. Iaia Cantatore

    Ciao Stefano.
    Intanto complimenti per il sito: è interessante, aggiornato e piacevole da leggere. E, converrai, le buone letture non sono mai troppe.

    Ho letto, per caso, questo articolo. Mi faceva piacere dire la mia visto che nei mesi scorsi mi ha coinvolta non poco.

    Non credo che la questione possa essere ridotta semplicemente all'”occhio per occhio e dente per dente” della folla che non perdona il cattivo che ha pagato per i suoi errori.
    Credo, invece, che dimentichi quanto esista e sia forte quell’istinto primordiale di rifiutare chi ci ha feriti, fatto del male o portato via, ucciso un figlio, un genitore, una sorella. E quanto sia questo a renderci anche umani.

    Ho provato a mettermi nei panni della famiglia e ho pensato: mi uccidono mia sorella. Prendono il colpevole che viene condannato, ma mia sorella è morta; esce di prigione e mia sorella rimane morta; diventa un insegnante e mia sorella no.
    Ora lui educa delle persone, crea nuovi cittadini, insegna psicologia.
    Credimi, io non riesco a non sorridere amaramente con gli occhi un po’ sgranati.
    E, bada, credo fortamente nelle nostra costituzione e ho letto pure Beccaria. Ma sono al tempo stesso fragile, umana, ho paura, soffro e, ripeto, non riesco a non sorridere malignamente dinanzi a questa situazione.

    Con questo, ovviamente, non voglio dire che Scattone non debba tornare ad essere un cittadino libero, altrimenti faremmo prima a rimettere la pena di morte (risparmieremmo anche soldi).
    Ma credo che nel momento in cui un uomo decide di compiere volontariamente un’azione come un omicidio (un omicidio!!) sia consapevole tanto della reale possibilità di dover passare degli anni in prigione, tanto della ancor più reale certezza che tanti avranno sempre uno sguardo indagatore.
    E tu condannato, allora, dovrai essere ancor più consapevole e pronto a fare il doppio della fatica, a convincere, ancora più di quanto si faccia normalmente, quegli sguardi della tua onestà, del tuo cambiamento, della tua rieducazione.
    Se scappi è un tuo problema. Se rinunci, non puoi colpevolizzare chi teme la tua persona.

    E’ difficile, immagino. Ma le leggi non sono sempre realiste e non tengono sempre conto di quell’istinto primordiale che ci rende umani in toto (e per umani intendo quel miscuglio di sentimenti, passioni, legami che non sempre controlliamo).

    Ps. sono razionalmente d’accordo con il tuo articolo.
    Ma con lo stomaco sorrido e penso: ma cazzo, ma dovevi proprio insegnare?! Vendi libri! Scrivono tutti! 🙂

    • Commenti per autore

      Ciao Iaia, innanzitutto grazie per aver voluto dare il tuo contributo (come sempre “misurato” e “informato”). Quello che scrivi rappresenta il tuo punto di vista e non solo il tuo. Anzi… credo (e un po’ temo) che siate la maggioranza. Lo rispetto e, anche se non lo condivido, posso capirlo. Solo piccolissime precisazioni, proprio su quello che scrivi: a) Scattone non ha “deciso di compiere volontariamente un’azione come un omicidio”, come dici tu: è stato condannato per omicidio colposo; b) scrivi ancora: ” tu condannato, allora, dovrai essere ancor più consapevole e pronto a fare il doppio della fatica, a convincere, ancora più di quanto si faccia normalmente, quegli sguardi della tua onestà, del tuo cambiamento, della tua rieducazione”. Ecco magari per “convincere” doveva avere la possibilità di insegnare: la protesta montata (non so se anche in atti ufficiali, ma sicuramente in dichiarazioni rilasciate sì e su questo chiedo lumi a te) aveva tra i propri punti programmatici, se così si può dire, l’indegnità di Scattone ad insegnare. Come faceva a “convincervi” se non volevate che insegnasse ?; c) “sono razionalmente d’accordo con il tuo articolo” concludi. Non l’ho scritto io ma l’ho preso dalla testata “Il Garantista”. E se sei “razionalmente” d’accordo mi basta e mi avanza. Quello “razionale” è l’unico piano della discussione che può e deve interessare un operatore del diritto. Con immutata stima. Stefano