News

Serafino Famà, un avvocato tra due fuochi

togheIl 9 novembre 1995, alle 21 circa, Serafino Famà, uno dei più noti avvocati penalisti di Catania, viene ammazzato con sei colpi di pistola calibro 7,65.   I giudici, nelle motivazioni della sentenza di colpevolezza a carico degli imputati, pronunciata il 4 novembre 1999, scrivono: “Le risultanze processuali pertanto, per come sopra evidenziato, hanno dimostrato che il movente dell’omicidio in esame va individuato esclusivamente nel corretto esercizio dell’attività professionale espletata dall’avvocato Famà”.

Nel 2013 viene prodotto da Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie il cortometraggio-documentario “Tra due fuochi. Serafino Famà, storia di un avvocato” dei registi Flavia Famà e Simone Mercurio

Di seguito il discorso pronunciato dall’avvocato Carmelo Passanisi in memoria del collega.

“Forse le commemorazioni andrebbero affidate a chi non conosceva il commemorato. Per evitare l’auto-commemorazione. Per evitare, soprattutto, che chi commemora sia sopraffatto dal sentimento e dalla commozione.
Eppure, per rendere onore a questo incarico, commemorare Serafino Famà, a diciassette anni dalla sua morte, sento due doveri.
Il primo. Far capire, a chi è arrivato dopo, cosa significò per noi quell’omicidio. Come reagimmo. Cosa capimmo.
Il secondo. Una riflessione su cos’era essere avvocati a Catania allora, per leggere in trasparenza, se possibile, cos’è esserlo ora.
1. Sono passati diciassette anni da quel giovedì 9 novembre del 1995.
Molti di noi quella sera appresero della morte di Serafino dalla televisione.
Vi era in onda un programma di Michele Santoro, credo si chiamasse “Tempi moderni”. Si parlava di mafia e vi era ospite un magistrato catanese.
Quando si parla di mafia è difficile che ci sia ospite un avvocato.
Improvvisa giunse la notizia: “Un avvocato catanese è stato ucciso. Serafino Famà”.
Serafino era un avvocato impegnato in tutti i più importanti processi di mafia catanesi. Era difensore di molti imputati in quei processi. Eppure nessuno osò strumentalizzare quell’assassinio. Non noi, che lo conoscevamo. Ma neppure i giornalisti, che a Catania, per quel fatto, accorsero numerosi.
Fu una notte che non passava mai, quella notte. Molti di noi si ritrovarono nel luogo dell’omicidio e poi sotto la Questura. Tutti stretti fra di noi, per consolarci e per consolare chi quella tragedia aveva vissuto in primissima persona, perché era insieme a lui in quel tragico momento.
L’indomani fu spontaneo riunirci tutti in assemblea. Eravamo tutti in toga, quella toga della quale in quel momento comprendevamo tutta la forza e insieme tutta la debolezza. Non c’erano più posti in quell’aula. Né seduti, né in piedi. Una sola poltrona, tenuta impegnata da una toga e da una rosa, per chi non avrebbe mai più potuto occuparla.
Fu il momento del dolore e dello strazio e anche della paura. Ma anche tempo in cui le decisioni si presero senza chiedere permesso a nessuno.
La Camera penale si sarebbe chiamata “Serafino Famà”.
I nostri studi sarebbero rimasti chiusi per avere il tempo di riflettere e capire e, soprattutto, per vegliare insieme il nostro Serafino nel suo tribunale.
E così fu.
In quell’androne grande e freddo, Serafino non fu mai solo. Tanta gente, di giorno e di notte e, intorno a lui e ai suoi familiari.
S’era deciso che sempre almeno quattro persone in toga sarebbero state presenti a rendergli onore e testimonianza. Lo si era deciso con qualche titubanza, pensando al numero di persone che sarebbero state necessarie e col dubbio di averle. Invece in pochi minuti le prenotazioni per quel picchetto s’erano esaurite e i giovani colleghi che se ne occupavano furono costretti a portarlo dapprima a sei, poi a otto persone.
Passò gente d’ogni tipo in quel giorno e in quella notte a rendergli un saluto, a portargli un fiore. Autorità (il Sindaco, il Presidente della Provincia, il Procuratore Antimafia Siclari) e gente semplice.
Ricordo un soldato di quelli di guardia al Palazzo in quei tempi per l’operazione chiamata “Vespri Siciliani”. Finito il suo turno entrò con ancora il fucile in mano. Si tolse l’elmetto e rimase un lungo momento a capo chino.
Ricordo rendere onore a Serafino, in piena notte, per un’ora, insieme, il Presidente e i vicepresidenti dell’Unione Camere Penali e il direttivo dell’ANM catanese.
Anche chi aveva dimenticato, preso da altre cose, che anche un avvocato va onorato, dimentico della sua altissima carica ritenne opportuno poi chiedere scusa. Parlo del Presidente Scalfaro, il quale si scusò mandando un biglietto al nostro presidente Trantino e poi anche con me, in occasione d’una visita al Quirinale fatta dalla Giunta dell’Unione della quale allora facevo parte.
Poi i funerali con la partecipazione di migliaia di persone e in essi, fra le altre, le parole strazianti del giovane figlio Fabrizio, per un solo giorno avvocato anch’egli, con sulle spalle la toga del padre.
E poi la lunghissima assemblea del lunedì, che durò un giorno intero e in cui ognuno di noi cercò ancora di capire, urlò, si confrontò, lo pianse ancora.
E poi la ripresa del processo Orsa Maggiore. Le parole degli avvocati, quelle dei magistrati, quelle per certi versi degli imputati.
Emozioni che non si cancellano in chi le visse e che rendono il ricordo di quei giorni forte come tutte le cose che si conservano nel cuore. Altri, che in passato l’ha commemorato prima di me, ha sottolineato che non nel cuore avremmo voluto tenere Serafino, ma vicino a noi, in Tribunale, nelle battaglie quotidiane. Ma il conservarlo nel cuore, che è il luogo, etimologicamente, ove la memoria vive e cresce, ci consente di meglio comprendere chi fu e cosa fu.
Emozioni che ho voluto raccontare perché Serafino non sia, per chi non lo conobbe, soltanto il nome di una Camera penale, il nome di un’aula di giustizia, il nome su una lapide in un androne.
Perché egli sia per tutti una figura concreta di uomo. Un uomo che ebbe, fra gli altri, un privilegio. D’aver ricevuto e continuare a ricevere un’attestazione d’amore grande, che ognuno di noi, in cuor suo, desidera ricevere.
2. Il secondo dovere è, per me, quello di riflettere.
Per riflettere su chi fu Serafino Famà, avvocato siciliano e catanese, voglio partire da una constatazione.
In questa nostra città l’unico omicidio “eccellente” che ha riguardato il mondo della giustizia è stato quello di un avvocato penalista. Eppure Catania è nella stessa regione nella quale è anche Palermo, per dirne una. Una città che ha visto cadere, anch’essi per mano mafiosa, numerosi magistrati, e uomini delle istituzioni e delle forze di polizia.
Perché a Catania no? Perché a Catania ci si accanì contro un avvocato?
Perché?
C’era un modo di essere avvocati, e avvocati penalisti, e avvocati penalisti impegnati quali difensori nei cosiddetti processi di mafia che non avesse nulla a che vedere con la condivisione della cultura mafiosa?
Che non avesse nulla a che spartire con l’ammiccamento con l’assistito?
Che fosse affermazione di una delle cose che fanno grande la nostra professione? Essa ci accosta al peggio delle debolezze e delle brutture umane e non ce le fa condividere, ma ci fa rivendicare, per quel peggio, il rispetto dei diritti.
Facile essere integri e per bene frequentando la buona società.
E’ frequentando il peggio che bisogna dare prova di essere uomini liberi, capaci di dimostrare che anche al mostro vanno riconosciuti i diritti inviolabili di uomo.
Dare prova che quella toga con la quale ci rivestiamo è il vestito con cui assumiamo la dignità di rappresentanti del diritto di difesa, chiamato “inviolabile” dall’articolo 24 della Costituzione.
C’era un modo per fare ed essere tutto questo e Serafino Famà era quel modo, era tutto questo.
“Il più puro di noi”, come qualcuno lo definì in quei giorni. Il più puro nell’essere pienamente e consapevolmente avvocato.
Per quelli come me, più giovani di lui, era l’avvocato intransigente, fermo, coraggioso, che nel rappresentare i diritti del proprio assistito non defletteva, forte soltanto della sua preparazione e della sua coscienza limpida.
Non immaginatelo, lo dico a quelli che non l’hanno conosciuto, come un accomodante baciapile pronto al compromesso con la scusa della salvaguardia di non si sa bene quale interesse del proprio assistito.
Ma non immaginatelo neanche come un gratuito attaccabrighe.
Pochi i magistrati che non si scontrarono con la sua veemenza e con la sua intransigenza. Pochissimi quelli che, ciò nonostante, non l’apprezzarono.
E di quei pochissimi non tiene conto occuparsi, perché il problema fu loro.
Serafino Famà era un uomo rispettoso delle forme, perché in esse vedeva la salvaguardia del diritto e della libertà da ogni forma di dispotismo, anche quello delle maggioranze. Come ricorda quella frase di Constant riportata nella lapide che lo ricorda nell’androne del Palazzo di Giustizia e che egli trascriveva su tutti i propri codici e su quelli di tutti i suoi collaboratori.
Per noi che lo vedevamo lavorare, che divedevamo con lui l’impegno nella camera penale, Serafino era uno che non accarezzava il pelo al pensiero corrente. E quando, come usava allora, ci disse che potevamo dargli del tu fu un’emozione.
Solo un uomo, un avvocato, come lui poteva essere capace di affrontare il disagio d’uno scontro con un pubblico ministero o un presidente di corte e, insieme, essere rispettosissimo di ciò che essi rappresentavano. L’ho sentito personalmente richiamare colleghi più giovani per il loro incaponirsi irrispettoso contro un provvedimento che dava loro torto: “Ora c’è un provvedimento e lo rispetti e rispetti chi lo ha emesso. Poi lo impugnerai”.
Così come l’ho sentito redarguire durissimo un cliente che pensava che quel suo strenuo e bravo difensore potesse essere un sodàle del suo mal compreso senso del vivere civile!
C’era, fra Serafino e qualunque cliente, qualunque fosse il colore suo colletto di esso, uno spazio. C’era, come si diceva una volta, la scrivania.
Per questo, quando egli cadde per mano mafiosa, nessuno poté dire che era morto un “avvocato dei mafiosi”, ma che era morto un avvocato.
Un avvocato intransigente, l’ho definito. Ma in cui l’intransigenza si stemperava nella comprensione, nella misericordia, mi viene da dire. Mi viene in mente il Vangelo secondo Matteo: “Ero in carcere e mi avete visitato…”. Nella cella di un colpevole o di un innocente? Nel Vangelo non si fa differenza.
Una volta egli ebbe uno scontro pensante col presidente d’una Corte, che aveva interrotto un suo controesame d’un collaboratore di giustizia usando frasi che egli ritenne, e lo erano, offensive. Serafino preparò un esposto chiaro, preciso, inequivocabile contro quel magistrato. Lo lesse a tanti di noi che lo incontravamo alle riunioni del direttivo di Camera penale e tutti lo condividemmo. Era pronto. Eppure, all’ultimo momento, decise di non presentarlo. Non lo fece per paura; ne sono, insieme ad altri, testimone. Lo fece per considerazione per l’umana debolezza e fragilità di quel presidente. Di quell’uomo. Anche in questo avvocato vero!
Egli fu un avvocato “consapevole” del suo ruolo. Perché la vera distinzione, nel nostro come negli altri campi, non è tanto quella fra chi è bravo e chi non lo è, fra chi è onesto e chi non lo è. Ma è quella fra chi è consapevole di quali principi sottendono al suo ruolo e chi esercita la nostra professione come solo il freddo, meccanico, esercizio di applicazione di norme. E dalla vera consapevolezza scaturiscono bravura e onestà.
Perché morì Serafino Famà; perché fu ucciso dalla mafia?
Abbiamo un processo e delle sentenze definitive a dircelo.
Quest’uomo straordinariamente coraggioso morì perché fu un eroe?
Mi piace di più dire che morì perché fu un eroe “normale”. Fu integralmente avvocato fino alla fine. Perché seppe dire di no a chi, con ogni forma di pressione, voleva estorcergli la testimonianza di una sua assistita, che egli, invece, pensava controproducente per essa.
Pagò con la vita aver fatto prevalere contro ogni cosa quello che egli riteneva un diritto di chi si era rivolto a lui, a lui si era affidato.
Pensate sia un motivo banale?
Io non lo penso. A me pare che questa “normalità” proietti la morte di Serafino nel presente e nel futuro rendendolo esempio vero di come si deve essere avvocati.
A me, pare, inoltre, specie in quest’epoca di finte audacie, il massimo degli eroismi.
L’eroismo di chi sa incarnare coraggiosamente e consapevolmente il proprio ruolo.
Di chi ha consapevolezza che il contributo al benessere collettivo al quale siamo tutti chiamati a collaborare sta ne fare il proprio dovere nel posto nel quale la vita ci ha collocati.
L’eroismo di chi, come Serafino, ha saputo rendere vero quel pensiero di Bertolt Brecht: “Sventurato quel paese che ha bisogno di eroi”.